sabato 12 marzo 2011

DA BIN LADEN A FACEBOOK



di Stefano Gatto

Era già successo nel 1989, quando la comunità internazionale e gli analisti erano stati unanimi nel non vedere assolutamente nulla di cosa stesse per succedere nel blocco comunista, sin lì considerato solidissimo. Invece, quello che non era altro che un ordine di polizia mal interpretato, quello di aprire temporaneamente il muro, si rivelò un cataclisma per un sistema evidentemente assai più fragile di quanto non si pensasse.
Anche le rivoluzioni in corso nei paesi arabi non erano state assolutamente previste, anzi chi le avesse ipotizzate anche solo qualche settimana fa o chi si ostinava a pensare che la democrazia potesse essere la soluzione anche nel mondo mussulmano veniva di solito deriso.
Una potente combinazione di 1) wikileaks, 2) facebook / twitter, 3) frustrazione dei giovani delusi sia dai loro regimi sia dall’alternativa islamica, e 4) una congiuntura economica difficile, che ha messo ancora in maggiore evidenza l’ipocrisia e inefficienza di tali regimi, ha portato in pochi giorni a cambiamenti politici per i quali si pensava sarebbero stati necessari decenni, non giorni.
Non a caso, i primi regimi a cadere sono stati quelli che sembravano più solidi (Tunisia, Egitto), tanto da divenire riferimento per la loro stabilità: proprio quei regimi che avevano usato tale superficiale stabilità come scusa per non realizzare quelle aperture politiche, anche parziali, che inevitabilmente portano ventate d’aria fresca.
Ben Ali e Mubarak hanno sempre avuto ragione, anche nel non portare avanti riforme politiche vere, perché quando intraprendi quel cammino sai dove ti porta: alla democrazia, incompatibile con i loro regimi personalisti. Loro lo sapevano, e quindi le timide riforme di facciata, fatte solo per compiacere superficialmente la comunità internazionale (seggi garantiti all’opposizione non islamista in Tunisia, tolleranza di un certo numero di candidature esterne legate ai Fratelli Mussulmani in Egitto) o sono state ritirate (boicottaggio di tutte le opposizioni alle ultime legislative egiziane) o sono servite per cooptare le opposizioni meno pericolose anestetizzandole nel sistema di potere (Tunisia).
Dal canto suo, la comunità internazionale si è sempre guardata dall’esigere una presenza significativa di missioni serie d’osservazione elettorale, capaci d’analizzare a fondo la validità del processo, o esigere passi avanti più decisi verso una democrazia reale, sempre negata in nome del principio di non ingerenza legato al timore di possibili successi di partiti islamici.
Ma lo scollamento tra popolazione e regimi si è allargato sempre più, come dimostrato dai bassissimi tassi di partecipazione alle elezioni vigenti in tutta la regione nordafricana (i cittadini non credevano a elezioni di quel tipo).
Finalmente, la coincidenza di quattro fattori ha permesso che l’immobilità divenisse movimento impetuoso.
Wikileaks: si è spesso ironizzato sul poco che Wikileaks avrebbe rivelato. Vero se ci si basa solo sui primi rapporti pubblicati dalla stampa. Mano a mano che le pubblicazioni si sono susseguite, è venuto fuori invece che la corruzione ed il malgoverno dei regimi in questione era ben noti a tutti, compresa la comunità internazionale. Non era solo vox populi: si sapeva e non si è fatto granché per modificare questa situazione. Wikileaks ha avuto quindi un effetto di trasparenza, di fine dell’ipocrisia.
Le reti sociali: si è spesso accusata l’opinione pubblica araba di eccessiva timidezza, pavore, passività. È stato vero per molto tempo, ma le reti sociali hanno cambiato questa realtà. Permettendo di ovviare all’onnipresente presenza degli apparati repressivi dei regimi.
Era già successo in Iran con la rivoluzione verde, soppressa perché venuta troppo presto e forse nel posto sbagliato, ma di cui si è saputo via Twitter a fronte del muro di silenzio dei media iraniani.
Facebook e Twitter, lungi dall’essere lo strumento superficiale di cui spesso si straparla, costituiscono la nuova ossatura del consenso politico, grazie allo straordinario potenziale in capacità di mobilitazione che ha in sé. Le reti sociali hanno fatto l’impossibile, quello che partiti, sindacati, gruppi non sarebbero mai riusciti a fare senza quel collante spontaneo.
Se per qualcosa si è contraddistinta la piazza nei paesi mussulmani in questi anni, è per la sua passività nei confronti dei propri governi ma anche per la sua capacità di mobilitarsi attorno al messaggio dell’islamismo radicale, che ha reso ancora più difficile l’ineluttabile cammino verso la democrazia del mondo islamico.
Questa è un’altra grande lezione della primavera fuori stagione del Nordafrica: Osama e Al Qaeda hanno perso il loro potenziale di mobilitazione nei confronti dei giovani istruiti, che non si eccitano più per i proclami dei barbuti, ma che esigono lavoro, opportunità e democrazia, come hanno dimostrato ai loro satrapi ma anche a un mondo un po’ incredulo in queste settimane.
La guerra al terrore Al Qaeda la sta perdendo non solo perché la sua capacità di nuocere con attività terroristiche è diminuita drasticamente grazie alla cooperazione internazionale, ma soprattutto perché i giovani non fremono più a quel grido di battaglia. L’integralismo islamico recluta solo più in zone recondite, tribali e fuori dalla modernità: il fatto che l’Egitto vada in un’altra direzione è la migliore notizia di questi giorni.
È stato poi anche necessario che al disagio sociale e politico si aggiungessero i problemi economici, che alimentano lo scontento: alla disoccupazione giovanile, endemica in tutti i paesi della regione non a causa dello scarso dinamismo economico, ma del paternalismo imperante nel sistema e della poca aderenza dei meccanismi di mercato in contesti dominate dalle famiglie dei rais.
A tali problemi strutturali si è sovrapposto l’aumento dei prezzi degli alimenti, un fenomeno mondiale che i regimi fanno fatica a controllare. Rivolte del pane ce ne sono state parecchie nel corso dei decenni passati: in questo caso, però, non sono venute da sole, e non è bastato imporre dei prezzi politici a pane e olio per calmare le folle.
È vero che, come segnalato da molti da dicembre in poi, non tutti i casi sono uguali, Di fatto, la situazione specifica varia da paese a paese, e se Tunisia ed Egitto avevano tra loro molte similitudini, non era sicuro che gli eventi di Tunisi potessero creare un’onda d’urto come quella cui stiamo assistendo.
Per il momento, riescono a contenere i danni quei paesi (Marocco, Algeria) nei quali, pur non mancando elementi comuni a quelli presenti in Egitto e Tunisia, sono state introdotte, nel corso degli anni riforme significative. In Marocco, Mohamed VI gode di un prestigio come monarca “aperto” di cui non godevano gli autocrati caduti.
E non è rimasto immobile in questi anni, pur tenendo salde in mano le redini del potere (il sistema “makhzen“). Anche l’Algeria, pur non esente da problemi politici ed economici, ha pur sempre tenuto elezioni, anche se in un caso boicottate dall’opposizione. Ma Bouteflika non è privo di carisma politico, anche se a volte eccessivo, ed è visto dagli algerini come colui che pose fine alla guerra civile.
In Algeria, la risposta alla crisi economica internazionale è stata poi una riappropriazione dell’economia da parte dello Stato che ha portato qualche beneficio.
Con questo non vogliamo dire che Marocco e Algeria non saranno obbligate ad approfondire le riforme economiche e politiche necessarie per dare sfogo alle energie represse in quei paesi. Crediamo però che esistano elementi per pensare che quei sistemi politici possano tenere, accelerando ora le riforme già sbozzate.
Il regime libico è finito: dittatura senza contemplazioni né tentativi di facciata di aggraziarsi l’Occidente, è un paese al quale si è sempre riservata una compiacenza esagerata: al “pazzo” Gheddafi si è sempre permesso tutto, specie da quando ha rinunciato alla minaccia nucleare e all’appoggio esplicito al terrorismo internazionale.
A cambio di tali decisioni, e del petrolio, si sono tollerati situazioni e atteggiamenti libici che non sarebbero mai stati permessi a nessun altro paese al mondo.
Gheddafi, persa la possibilità d’integrare il mondo arabo attorno alla sua figura, si è dedicato negli ultimi dieci – quindici anno a crearsi un ruolo africano, che ha avuto conseguenze nefaste sulle democrazie in Africa subshariana. La prossima caduta del “re dei re d’Africa” (modesto titolo che usa sul continente) non sarà purtroppo indolore, ma il velo d’ipocrisia che ha protetto il suo regime per anni è finalmente caduto.
La sparizione del regime della Jamariya è un’ ottima notizia per il mondo, anche se si aprono scenari complessi, visto l’assolutismo con cui Gheddafi e il suo clan hanno gestito il potere per decenni.
Come ha reagito la comunità internazionale a questi cambiamenti? Se l’Occidente disponeva di buoni elementi d’analisi, non li ha però mai usati davvero a buon fine, preso in ostaggio dal discorso catastrofista degli “uomini saggi” della riva  sud del mediterraneo. La tripla ipoteca della paura all’islamismo, della dipendenza dagli idrocarburi e della minaccia perenne dell’emigrazione di massa ha ibernato la fantasia politica dei paesi occidentali, che si sono sempre mossi su un agenda tracciata dai dittatori del Sud.
Non riconoscere il risultato elettorale del 1992 in Algeria fu il peccato originale, che trascinò il paese in una sanguinosa guerra civile. Le elezioni palestinesi vinte da Hamas e le difficoltà nell’accettare tale esito, inevitabile, si tradussero nell’idea che la democrazia non può funzionare nel mondo arabo perché se no “vincono i cattivi”.
Quest’idea ha bloccato la regione fino ad oggi: ma l’altra grande lezione di questi giorni è che non sono gli islamisti i protagonisti delle rivoluzioni, ma la gente comune. Anche gli arabi possono volere la democrazia, anche se a tanti costa accettare l’idea.
Il dovere del resto del mondo è ora quello di assecondare queste rivoluzioni, così come ci facemmo in quattro per appoggiare i paesi che abbandonarono di colpo il comunismo.
Dopo la caduta del muro di Berlino, quegli stessi analisti che non avevano visto venire nulla s’affrettarono a concludere che la morte del comunismo supponeva una transizione rapida e gioiosa vero il capitalismo. È stato così, ma nel quadro di un processo irto di difficoltà impreviste. Di fatto, la transizione è avvenuta meglio in quei paesi che sono potuti entrare nell’Unione Europea (l’allargamento costituisce uno straordinario successo della politica estera europea, spesso criticata per la sua supposta invisibilità: ebbene, quello che fu un successo talmente grande che adesso è facile e ingiusto darlo come qualcosa di scontato).
Perche è l’integrazione in uno spazio politico ambizioso come l’UE che ha permesso a quei paesi di completare a dovere il processo di cambiamento. Scusate se è poco.
La transizione è invece rimasta insoddisfacente in tutti quei paesi che sono rimasti fuori dall’UE, e che fanno parte della politica di vicinanza. In quel caso, lo stimolo derivante da tale partnership non è stato sufficiente a permettere loro di completare quel processo, e molto rimane da fare.
Nei confronti del mondo islamico si apre oggi una prospettiva straordinariamente interessante: i cittadini hanno dimostrato la fallacia dell’idea che i mussulmani “hanno bisogno di un dittatore”: l’umanità evolve, e la democrazia è il prossimo appuntamento anche per loro. Se nel caso dei paesi comunisti si erano sottostimate le difficoltà, oggi le si sovrastima, giudicando impossibile un cammino verso la democrazia in quelle nazioni. Non è vero: sarà difficile, ma potremo proprio usare l’esperienza degli anni novanta per tracciare un cammino di aiuto.
L’Occidente ha tutto l’interesse ad aiutare quest’ondata espansiva della democrazia a consolidarsi.
Sarà lungo e difficile ma necessario. Le alternative sono la barbarie e il caos.
La comunità internazionale non è stata particolarmente efficiente in materia di “state – building” e “democracy – building”: in Afghanistan, Timor, nei Balcani non sono mancati errori anche clamorosi. Ma il caso dell’allargamento a est dell’UE offre un esempio positivo: quando esiste una prospettiva di medio periodo chiara di dove si sta andando, è possibile tracciare il percorso giusto. Nel caso dei paesi dell’est era l’adesione all’UE, ed ha funzionato.
Nel caso dei paesi del mediterraneo è la democrazia reale, senza più preclusioni per un’eventuale democrazia mussulmana, che del resto ha già dato buone prove in Turchia. Chiaro che non mancheranno tensioni e indietreggiamenti, ma difficilmente gli eroi di piazza Tahrir s’accontenteranno di meno. È nostro dovere vincere i nostri pregiudizi, approfondire le analisi e offrire assistenza là dove necessario. Possibile che i tempi per elezioni in Tunisia ed Egitto siano troppo corti: in sei mesi non si costruisce una rete di partiti e strutture che possano competere in elezioni né si possono riformare a dovere leggi fatte apposta per eleggere i dittatori.
Non sarebbe quindi grave che i tempi si dilatassero un po’. Ma senza perdere di vista la prospettiva finale, che non può essere altra che la democrazia.
La rivoluzione democratica che Bush voleva portare dall’Iraq al resto del mondo arabo è fallita miseramente , vittima della propria ipocrisia di fondo: quello che si voleva erano regimi docili dietro una patina democratica. Ma è fallito anche l’approccio integralista di Osama bin Laden.
L’Europa ha una carta da giocare: non critichiamola per le sue timidezze di questi giorni: è troppo presto per mettere a prova una nuova struttura di politica estera nata da pochi mesi e non ancora rodata. Comunque, per inciso, nessun altro ha fatto meglio, e qualcuno ha fatto ben peggio, esprimendo opinioni di bassissimo livello che fanno preferire un discreto silenzio.
L’UE può fare molto per appoggiare la democratizzazione, nei tempi e le modalità che saranno necessari, e per dare finalmente sostanza a quell’Unione per il Mediterraneo che sinora è stata ostaggio dei prepotenti. Che a poco a poco lasciano la scena, aprendo lo spazio a nuovi scenari. In cui, oltre al potere di facebook, si può inserire anche il “soft power” europeo. Può sembrare una conclusione all’ “aspettando Godot”, ma è forse la prova di cui avevamo bisogno.
La breccia tra Islam ed Occidente può finalmente richiudersi, così come avvenne a quella tra paesi capitalisti e comunisti.

Stefano Gatto si è laureato a 24 anni: l'ultimo anno in una specie di Erasmus a Barcellona, dopodichè rimane a lavorare in Spagna 5 anni nel privato.
A 30 anni si sposa e vince il concorso UE, trasferendosi a Bruxelles.
Al tempo stesso rinuncia a perseguire un PH.D. a Columbia (era stato ammesso quello stesso anno).
All'interno della Commissione Europea era intenzionato a dirigersi verso il settore politica estera: non fu possibile subito, il suo primo posto fu a Eurostat, dove però si occupa di cooperazione con America Latina ed Asia, viaggiando moltissimo in quelle zone.
A 33 anni passa definitivamente alla direzione generale politica estera, direzione America Latina.
A 35 il primo posto in Brasile (consigliere politico ed economico), a 39 il secondo in India (volutamente in Asia per non divenire solo uno specialista America Latina, consigliere commerciale, soprattutto OMC).
A 43 il rientro obbligato a Bruxelles (dopo due posti all'estero è la regola), dove, essendosi occupato sempre più di questioni economiche che politiche cerca un posto di natura prettamente politica: responsabile delle missioni d'osservazione elettorali dell'UE nel mondo, un tema che lo ha portato a confrontarsi con scenari delicati un pò ovunque nel pianeta (Afghanistan, Venezuela, Timor, Angola, Costa d'Avorio etc.).
Un periodo molto istruttivo.
Conosciuto grazie ad un amico comune, affezionato al Siena calcio, alla Juventus, membro e "piccolo azionista" del F.C. Barcelona.
Scrive di politica su lo spazio della politica, potete seguire là i suoi interventi.

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