domenica 27 marzo 2011

Onore al Popolo...




E' incredibile la straordinaria compostezza, l'ormai caratteristico selfcontrol che caratterizza i giapponesi sfortunatamente alle prese con queste disgrazie.
Pochi istanti dopo l'allarme i bambini che stavano per prepararsi all'uscita di scuola, hanno preso lo zaino e il caschetto di emergenza e sono scesi ordinatamente in strada.
Sì perchè alle pareti di ogni scuola c'è un appendiabiti con un kit di sopravvivenza, una torcia, un casco.
Nelle case è vietato attaccare i quadri con chiodi alle pareti, all'interno del vetro delle finestre un reticolato impedisce la caduta di schegge, e si consiglia di tenere sempre un paio di scarpe sotto il letto, in caso di fuga improvvisa.
La scossa ha liberato un'energia che è stata 30 mila volte (30.000 sic!) maggiore a quella scatenata a L'Aquila nel 2009.
Pur sottoposti a grandi oscillazioni i grandi grattacieli di Tokyo hanno retto. Alberto Zaccheroni, il ct italiano della nazionale di calcio giapponese, è rimasto esterrefatto:"ci hanno portato in un grande parco all'aperto e ad un certo punto ho visto che l' asfalto si muoveva"!.
Il professore Alessandro Martelli, professore di Costruzioni in zona sismica all'università di Ferrara ha dichiarato:"un terremoto di magnitudo 7,5 ben inferiore a quello giapponese (già violentissimo), farebbe tra le 15 mila e le 32 mila vittime in Calabria, appena 400 vittime a Tokyo. Lì le case restano in piedi e ovviamente non si tratta di un miracolo".
La materia anche se macabra mi appassiona e così vengo a sapere che dal punto di vista normativo ed ingegneristico il Giappone è davvero all'avanguardia.
Si utilizzano le strutture con getti di cemento armato che permette l'elasticità e la torsione adeguandosi al movimento tellurico.
Questa tecnologia edile ha resistito e allo stato attuale sono a prova di terremoto 3 edifici giapponesi su 4 e l'obiettivo è arrivare al 90% nel 2015.
E' un obbligo per gli edifici pubblici ma anche i privati si stanno gradualmente attrezzando, consapevoli che la terra dove vivono è soggetta al 20% delle scosse che vengono registrate in tutto il mondo e che secondo le statistiche accade una catastrofe ogni 70 anni. Roba da far tremare i polsi.
Quasi tutti gli edifici di nuova costruzione sono obbligatoriamente dotati di speciali cuscinetti antisismici posti alla base degli edifici.
Vengono adottati acciai più elastici di quelli normali e i pilastri sono annegati ed avvolti da speciali tubi in fibra di carbonio, che li rendono più resistenti alle fratture.
Ci sono strutture costruite in legno con strutture portanti in acciaio e carbonio. E' montato sopra "slitte" dotate di pantografi e dissipatori a pistone che permettono alla casa di muoversi smorzando l'onda d'urto del terremoto (fonte il Foglio)
Altri accorgimenti fondamentali sono le porte e le finestre costruite ad architrave mobile per consentire comunque di aprire la porta, a botole apribili sui balconi per scendere di piano, all'uso di materiali antifiamma per evitare incendi.
Tutto questo ha però un costo aggiuntivo del 5 e 10% che può salire ancora di più.
(Roberto Giovannini, intervista a "La Stampa").

GLI IMPIANTI NUCLEARI

Stanno suscitando ansie, angosce e preoccupazione la sorte delle centrali nucleari presenti in Giappone.
Tutti sono d'ccordo nel ritenere che le centrali nucleari sono costruite secondo i più avanzati criteri di sicurezza, al punto che è stato calcolato che circa un terzo del costo di una centrale va a coprire i sistemi di sicurezza.
Il problema della centrale di Fukushima, la centrale che sta facendo tenere col fiato sospeso un mondo intero per le fughe radiottive, è che non ha funzionato il meccanismo d'emergenza a diesel.
Ogni centrale deve avere due motori diesel pronti ad entrare in funzione ogni volta che la corrente elettrica salta per consentire lo spegnimento di emergenza dell'impianto.
Nel giorno del terremoto questi due motori non sono partiti e la radiottività è iniziata a salire.
Il Giappone, nonostante si trovi in una posizione geografica al altissimo rischio sismico, ha deciso ugualmente di investire nell'energia nucleare civile con 55 reattori in funzione e 11 in costruzione. Allo stato attuale il 30% dell'elettricità giapponese viene ricavata dall'energia nucleare.
Il governo ha posto l'obiettivo del 50% entro il 2030.

SI PUO' MANTENERE IL COSTO DELLA SICUREZZA DI UNA CENTRALE NUCLEARE?

IN passato, il reattore di un'altra città, quella di Niigata, fu colpito da un violento terremoto. Era una centrale progettata per resistere ad un terremoto di 6 gradi. Il terremoto fu di 6,8 gradi. Per elevare lo standard a 6,8, quindi migliorare l'apparato di sicurezza di 0,8 gradi, i giapponesi hanno speso 2,6 miliardi di euro. Cifra che serve a costruire un nuovo reattore.
Se Fukushima è stato progettato per reggere ad un terremoto di 7 gradi, quello dell'11 marzo è stato 1000 volte più potente (la scala Richter è logoritma).
Quanti soldi ci vorrano e dunque quanto costa elevare lo standard di sicurezza?
A voi, a noi cioè, i conti..proprio adesso che dovremmo decidere se puntare ancora sul nucleare e sulle sicurezza delle centrali. Bel casino.

A me ha colpito anche la frase del presidente dell'Istituto italiano di vulcanologia e geologia Enzo Boschi, che forse pone fine alle polemiche anche in Italia sulla presunta prevedibilità di questi fenomeni. "Dopo 40 anni di studi, siamo in grado di sapere dove avverranno i terremoti, quanto saranno grandi, quale sarà la loro forza massima, ma non sappiamo dire quando si verificherà un terremoto...Abbiamo un'azione tempestiva massima di 10 secondi..è il massimo che può offrire una scienza giovane come questa".

Lo Shopping commerciale dei francesi in Italia


Quando abbiamo letto che la Lactalis, la multinazionale francese dei formaggi (126 stabilimenti, 38 mila dipendenti, 10 miliardi di fatturato) ha comprato il quasi 30% delle azioni Parmalat esprimendo l'intenzione di acquistare tramite un OPA l'intera società, gli italiani che hanno a cuore la nostra economia si sono un po' irritati.
Subito abbiamo sperato nell'unico player italiano che potrebbe salvare la Parmalat dalle mani dei cugini francesi, la Ferrero, dato che l'altro potenziale amico, la Granarolo, ha esplicitamente ammesso che non ha la forza per mettersi in mezzo.
Voi direte, ma perchè questa preoccupazione? In fondo siamo all'interno dell'UE, all'interno di uno dei pilastri sul quale si è costruita la nostra Europa, il pilastro del mercato comune, della libera concorrenza, del libero mercato ecc...ecc...
Sì, avete ragione ma gli scettici non hanno torto a pensare che i cugini francesi fanno agli altri ciò che non vogliono che venga fatto a loro, ovvero vedere acquistare loro aziende da parte di stranieri, ed ecco che a quel punto iniziano a modificare le leggi, a fare ciò che in linguaggio economico/diplomatico si chiama protezionismo commerciale.
Il governo Italiano lo ha capito e sta andando subito ai ripari varando un provvedimento che disciplina le regole e il settore delle nostre aziende nel momento nel quale queste vengono prese di mira da aziende estere.
Gli italiani di buonsenso non dovrebbero essere pregiudizialmente contrari alla proprietà straniera delle nostre aziende perchè questo può favorire investimenti esteri, flusso di capitali, possiblità manageriali diverse e forse più efficaci.
Agli italiani di buonsenso non dovrebbe interessare quale bandiera sventoli sui tetti dell'azienda, l'importante che favorisca l' occupazione e la crescita della nazione.
Tuttavia quando sento che alcune aziende italiane, volendo comprare aziende estere, in questo caso francesi, sono state ostacolate dal governo che si organizza per approvare norme diverse da quelle che il libero mercato favorisce, ecco che la cosa inizia ad irritare anche gli italiani di buonsenso.
Per capirci meglio diamo alcune esempi:
Nel gennaio 2006 vi è stato un braccio di ferro tra Italia e Francia sulla questione della conquista della “Compagnie de Suez”, storica azienda di servizi energetici europea nata nell'Ottocento, il cui nome deriva da una delle sue prime e più importanti attività: la realizzazione del canale di Suez.
All'acquisto del colosso del gas e dell'elettricità francese è infatti interessata Enel,la nostra italianissima ENEL, tanto da aver proposto il lancio di un'Opa, un'offerta pubblica di acquisto, per rastrellare sul mercato quote sufficienti per averne il controllo.
Una operazione impegnativa per l'azienda elettrica italiana, che per acquistarla avrebbe dovuto mettere sul piatto 50 milioni di euro e che, pur di mandarla in porto, si sono offerte a partecipare per garantire la copertura finanziaria tutte le principali banche italiane.
La proposta però è stata congelata ancor prima di essere formulata ufficialmente: e la causa è stata il proclama del primo ministro Francese Dominique de Villepin, che ha dato ufficialmente la "benedizione" del governo alla annunciata fusione tra Suez e Gaz de France.
Un'operazione decisa proprio per impedire l'ingresso di Enel nel capitale sociale di Suez.
Un matrimonio nel più perfetto stile nazionalistico, alla "moglie e buoi dei paesi tuoi", molto poco in linea invece con le tendenze della UE sui settori chiave della produzione continentale come l'energia.
Quindi onde evitare che questi cattivi italiani dell'ENEL acquistassero una delle loro aziende, l'allora premier obbligò due industrie tutte e due francesi a fondersi per essere più forti divenendo impossibile per chiunque entrare.
Vi è un altro esempio di protezionismo "alla francese", in questo caso non nei nostri confronti.
Lo stesso De Villepin blindò la francese Danone all'avanzata di Pepsi, la multinazionale del drink&beverage.

PICCOLI SCREZI TRA ITALOFRANCESI

Secondo alcuni autorevoli analisti del settore, questa guerra commerciale in realtà sta provocando parecchi colpi bassi e ripicche tra i rispettivi paesi.
L'esempio lampante può essere il secco no a Carlo Magrassi ad essere nominato alla guida dell'EDA, l'agenzia europea degli armamenti.
A questo è seguito lo stop imposto dal governo francese all'acquisto di 1,8 miliardi di commesse al gruppo italiano IVECO per gli autocarri militari tattici.
Ancora i francesi hanno bloccato la partnership italiana al progetto VEGA che è un lanciatore per shuttle spaziale, oltre il congelamento ad una alleanza nel campo dei siluri (militare), che si aggiunge alla storica rivalità nel campo degli elicotteri con la nostra Agusta Westland e il gruppo francotedesco Eurocopter.

ALTRI OBIETTIVI FRANCESI

Da premettere che i francesi della Lactalis avevamo già conquistato negli ultimi anni la Galbani, Invernizzi e Cademartori accentuando la loro presenza nel settore dell'agroaliemntare italiano.
Non si parla solo del settore agroalimentare dunque, ma anche finanziario, energetico e della settore più delicato della difesa.
Nella finanza ormai è chiaro che tramite il francese Bollorè che è vicepresidente di Generali Assicurazioni nonchè storico azionista di Mediobanca, i francesi stanno puntando al controllo dell'impero traballante di Salvatore Ligresti e qui la nostra Consob ha imposto un 'OPA su Fondiaria Sai, il gioiello di famiglia di Ligresti appunto.
Ovvio non dimenticarsi che BNP Paribas, il gruppo bancario francese, ha acquistato la nostra BNL e Air France non aspetta altro che la fine di Alitalia per entrare anche lì.
Da diversi mesi invece è la notizia che il gigante francese del lusso Lvmh ha comprato la nostra Bulgari dopo aver lanciato un OPA con l'accordo che la storica famiglia romana del lusso entri nel capitale del colosso francese con il 3%.
Quindi ricapitolando: i francesi aggrediscono nel settore agroalimentare, banche, aerei, in quello energetico, del lusso, delle assicurazioni e finanza.

COME SI MUOVE IL NOSTRO GOVERNO

Il ministro Tremonti ha già varato il proprio piano.
In pratica si trata di difenderci dall'assalto facendo come i francesi, intervenendo prima sul settore dell'energia affinché si bloccasse l'accordo che avrebbe consegnato la nostra Edison (terza azienda dopo ENI e ENEL) ai francesi di EDF (Electricitè de France).
Ovviamente deve essere un piano di difesa che non venga impugnato dall'Unione europea perchè l'UE potrebbe accusarci di concorrenza sleale e dunque illecita.
Gli esperti italiani di diritto comunitario e concorrenziale hanno parlato della possibilità di dotarsi di una legge simile a quella in vigore e approvata in Francia e in Canada.
La legge dovrebbe imporre che qualora ci fosse un interessamento da parte di aziende estere in determinati settori delicati e strategici a livello nazionale, settori cioè legati alla sicurezza (difesa, energia per esempio), l'acquisto da parte di questi gruppi esteri deve essere autorizzato dal governo.
Certo, i liberisti e i fautori del libero mercato non la prenderanno bene perchè è ovvio che questo principio va a cozzare contro una dottrina della libera concorrenza che ha come prima filosofia l'assenza di interventi dello stato nell'economia ,ma tant'è.

ESEMPIO AMERICANO

Basta andare nel tempio sacro del liberismo quale quello americano appunto e ci si accorge che lì esiste una commissione ad hoc, la Committee for foreign Investment in the United States (Cfius) che valuta la compatibilità dell'intervento con gli interessi e la sicurezza nazionale.
In pratica in Italia si sta studiando la possibilità di creare questa commissione per evitare che soggetti stranieri controllino i nostri punti strategici quali la banda larga, e la rete energetica data appunto la loro rilevanza strategica.
I critici potranno comunque affermare che si tratta pur sempre di norme che di fatto limitano la libertà di impresa, norme scorrette con l'effetto di scoraggiare gli investimenti esteri nel nostro territorio che tanto la nostra già debole economia abbisogna.

GIUSTIFICAZIONE DI UNA LEGGE

Qualora questa legge andasse in porto gli italiani di buonsesno si chiedono perchè non debba valere per noi ciò che è consentito ad altri.
Si tratta di creare questa legge e la applichiamo a stranieri che nel loro paese ne hanno una identica.
Applichiamola alle aziende francesi dato che in Francia hanno una legge simile e magari non lo si fa con altri paesi dove questa legge non c'è.
Forse gli italiani critici hanno troppo sbuonsensoil principio sta bene così perchè altrimenti noi italiani faremmo sempre la figura del popolo accomodante che non si fa rispettare abbastanza nel panorama internazionale mentre i nostri competitor fanno shopping da noi comprando i nostri gioielli di famiglia mentre noi rimaniamo a guardare. Con buonsenso (?).
Pensiamo un pò se la nostra ENI o ENEL fosse in mano ai francesi e da un giorno all'altro, causa crisi mediorientale, guerre, dittatori e sistemi politici instabili, ci si vengono ridotti gli approvvigionamenti energetici. Pensiamo che Sarkozy, proprietario di ENI, faccia valere i nostri interessi o quelli del suo paese, la Francia, negoziando questioni vantaggiose solo per lui e il suo paese? Ci son settori, quali la difesa, le telecomunicazioni (in un mondo di spie, di wikileakers, intercettatori privati) acquista sempre un ruolo strategico per il paese, devono rimanere italiane.
Con buona pace degli italiani del non buonsenso.

sabato 12 marzo 2011

DA BIN LADEN A FACEBOOK



di Stefano Gatto

Era già successo nel 1989, quando la comunità internazionale e gli analisti erano stati unanimi nel non vedere assolutamente nulla di cosa stesse per succedere nel blocco comunista, sin lì considerato solidissimo. Invece, quello che non era altro che un ordine di polizia mal interpretato, quello di aprire temporaneamente il muro, si rivelò un cataclisma per un sistema evidentemente assai più fragile di quanto non si pensasse.
Anche le rivoluzioni in corso nei paesi arabi non erano state assolutamente previste, anzi chi le avesse ipotizzate anche solo qualche settimana fa o chi si ostinava a pensare che la democrazia potesse essere la soluzione anche nel mondo mussulmano veniva di solito deriso.
Una potente combinazione di 1) wikileaks, 2) facebook / twitter, 3) frustrazione dei giovani delusi sia dai loro regimi sia dall’alternativa islamica, e 4) una congiuntura economica difficile, che ha messo ancora in maggiore evidenza l’ipocrisia e inefficienza di tali regimi, ha portato in pochi giorni a cambiamenti politici per i quali si pensava sarebbero stati necessari decenni, non giorni.
Non a caso, i primi regimi a cadere sono stati quelli che sembravano più solidi (Tunisia, Egitto), tanto da divenire riferimento per la loro stabilità: proprio quei regimi che avevano usato tale superficiale stabilità come scusa per non realizzare quelle aperture politiche, anche parziali, che inevitabilmente portano ventate d’aria fresca.
Ben Ali e Mubarak hanno sempre avuto ragione, anche nel non portare avanti riforme politiche vere, perché quando intraprendi quel cammino sai dove ti porta: alla democrazia, incompatibile con i loro regimi personalisti. Loro lo sapevano, e quindi le timide riforme di facciata, fatte solo per compiacere superficialmente la comunità internazionale (seggi garantiti all’opposizione non islamista in Tunisia, tolleranza di un certo numero di candidature esterne legate ai Fratelli Mussulmani in Egitto) o sono state ritirate (boicottaggio di tutte le opposizioni alle ultime legislative egiziane) o sono servite per cooptare le opposizioni meno pericolose anestetizzandole nel sistema di potere (Tunisia).
Dal canto suo, la comunità internazionale si è sempre guardata dall’esigere una presenza significativa di missioni serie d’osservazione elettorale, capaci d’analizzare a fondo la validità del processo, o esigere passi avanti più decisi verso una democrazia reale, sempre negata in nome del principio di non ingerenza legato al timore di possibili successi di partiti islamici.
Ma lo scollamento tra popolazione e regimi si è allargato sempre più, come dimostrato dai bassissimi tassi di partecipazione alle elezioni vigenti in tutta la regione nordafricana (i cittadini non credevano a elezioni di quel tipo).
Finalmente, la coincidenza di quattro fattori ha permesso che l’immobilità divenisse movimento impetuoso.
Wikileaks: si è spesso ironizzato sul poco che Wikileaks avrebbe rivelato. Vero se ci si basa solo sui primi rapporti pubblicati dalla stampa. Mano a mano che le pubblicazioni si sono susseguite, è venuto fuori invece che la corruzione ed il malgoverno dei regimi in questione era ben noti a tutti, compresa la comunità internazionale. Non era solo vox populi: si sapeva e non si è fatto granché per modificare questa situazione. Wikileaks ha avuto quindi un effetto di trasparenza, di fine dell’ipocrisia.
Le reti sociali: si è spesso accusata l’opinione pubblica araba di eccessiva timidezza, pavore, passività. È stato vero per molto tempo, ma le reti sociali hanno cambiato questa realtà. Permettendo di ovviare all’onnipresente presenza degli apparati repressivi dei regimi.
Era già successo in Iran con la rivoluzione verde, soppressa perché venuta troppo presto e forse nel posto sbagliato, ma di cui si è saputo via Twitter a fronte del muro di silenzio dei media iraniani.
Facebook e Twitter, lungi dall’essere lo strumento superficiale di cui spesso si straparla, costituiscono la nuova ossatura del consenso politico, grazie allo straordinario potenziale in capacità di mobilitazione che ha in sé. Le reti sociali hanno fatto l’impossibile, quello che partiti, sindacati, gruppi non sarebbero mai riusciti a fare senza quel collante spontaneo.
Se per qualcosa si è contraddistinta la piazza nei paesi mussulmani in questi anni, è per la sua passività nei confronti dei propri governi ma anche per la sua capacità di mobilitarsi attorno al messaggio dell’islamismo radicale, che ha reso ancora più difficile l’ineluttabile cammino verso la democrazia del mondo islamico.
Questa è un’altra grande lezione della primavera fuori stagione del Nordafrica: Osama e Al Qaeda hanno perso il loro potenziale di mobilitazione nei confronti dei giovani istruiti, che non si eccitano più per i proclami dei barbuti, ma che esigono lavoro, opportunità e democrazia, come hanno dimostrato ai loro satrapi ma anche a un mondo un po’ incredulo in queste settimane.
La guerra al terrore Al Qaeda la sta perdendo non solo perché la sua capacità di nuocere con attività terroristiche è diminuita drasticamente grazie alla cooperazione internazionale, ma soprattutto perché i giovani non fremono più a quel grido di battaglia. L’integralismo islamico recluta solo più in zone recondite, tribali e fuori dalla modernità: il fatto che l’Egitto vada in un’altra direzione è la migliore notizia di questi giorni.
È stato poi anche necessario che al disagio sociale e politico si aggiungessero i problemi economici, che alimentano lo scontento: alla disoccupazione giovanile, endemica in tutti i paesi della regione non a causa dello scarso dinamismo economico, ma del paternalismo imperante nel sistema e della poca aderenza dei meccanismi di mercato in contesti dominate dalle famiglie dei rais.
A tali problemi strutturali si è sovrapposto l’aumento dei prezzi degli alimenti, un fenomeno mondiale che i regimi fanno fatica a controllare. Rivolte del pane ce ne sono state parecchie nel corso dei decenni passati: in questo caso, però, non sono venute da sole, e non è bastato imporre dei prezzi politici a pane e olio per calmare le folle.
È vero che, come segnalato da molti da dicembre in poi, non tutti i casi sono uguali, Di fatto, la situazione specifica varia da paese a paese, e se Tunisia ed Egitto avevano tra loro molte similitudini, non era sicuro che gli eventi di Tunisi potessero creare un’onda d’urto come quella cui stiamo assistendo.
Per il momento, riescono a contenere i danni quei paesi (Marocco, Algeria) nei quali, pur non mancando elementi comuni a quelli presenti in Egitto e Tunisia, sono state introdotte, nel corso degli anni riforme significative. In Marocco, Mohamed VI gode di un prestigio come monarca “aperto” di cui non godevano gli autocrati caduti.
E non è rimasto immobile in questi anni, pur tenendo salde in mano le redini del potere (il sistema “makhzen“). Anche l’Algeria, pur non esente da problemi politici ed economici, ha pur sempre tenuto elezioni, anche se in un caso boicottate dall’opposizione. Ma Bouteflika non è privo di carisma politico, anche se a volte eccessivo, ed è visto dagli algerini come colui che pose fine alla guerra civile.
In Algeria, la risposta alla crisi economica internazionale è stata poi una riappropriazione dell’economia da parte dello Stato che ha portato qualche beneficio.
Con questo non vogliamo dire che Marocco e Algeria non saranno obbligate ad approfondire le riforme economiche e politiche necessarie per dare sfogo alle energie represse in quei paesi. Crediamo però che esistano elementi per pensare che quei sistemi politici possano tenere, accelerando ora le riforme già sbozzate.
Il regime libico è finito: dittatura senza contemplazioni né tentativi di facciata di aggraziarsi l’Occidente, è un paese al quale si è sempre riservata una compiacenza esagerata: al “pazzo” Gheddafi si è sempre permesso tutto, specie da quando ha rinunciato alla minaccia nucleare e all’appoggio esplicito al terrorismo internazionale.
A cambio di tali decisioni, e del petrolio, si sono tollerati situazioni e atteggiamenti libici che non sarebbero mai stati permessi a nessun altro paese al mondo.
Gheddafi, persa la possibilità d’integrare il mondo arabo attorno alla sua figura, si è dedicato negli ultimi dieci – quindici anno a crearsi un ruolo africano, che ha avuto conseguenze nefaste sulle democrazie in Africa subshariana. La prossima caduta del “re dei re d’Africa” (modesto titolo che usa sul continente) non sarà purtroppo indolore, ma il velo d’ipocrisia che ha protetto il suo regime per anni è finalmente caduto.
La sparizione del regime della Jamariya è un’ ottima notizia per il mondo, anche se si aprono scenari complessi, visto l’assolutismo con cui Gheddafi e il suo clan hanno gestito il potere per decenni.
Come ha reagito la comunità internazionale a questi cambiamenti? Se l’Occidente disponeva di buoni elementi d’analisi, non li ha però mai usati davvero a buon fine, preso in ostaggio dal discorso catastrofista degli “uomini saggi” della riva  sud del mediterraneo. La tripla ipoteca della paura all’islamismo, della dipendenza dagli idrocarburi e della minaccia perenne dell’emigrazione di massa ha ibernato la fantasia politica dei paesi occidentali, che si sono sempre mossi su un agenda tracciata dai dittatori del Sud.
Non riconoscere il risultato elettorale del 1992 in Algeria fu il peccato originale, che trascinò il paese in una sanguinosa guerra civile. Le elezioni palestinesi vinte da Hamas e le difficoltà nell’accettare tale esito, inevitabile, si tradussero nell’idea che la democrazia non può funzionare nel mondo arabo perché se no “vincono i cattivi”.
Quest’idea ha bloccato la regione fino ad oggi: ma l’altra grande lezione di questi giorni è che non sono gli islamisti i protagonisti delle rivoluzioni, ma la gente comune. Anche gli arabi possono volere la democrazia, anche se a tanti costa accettare l’idea.
Il dovere del resto del mondo è ora quello di assecondare queste rivoluzioni, così come ci facemmo in quattro per appoggiare i paesi che abbandonarono di colpo il comunismo.
Dopo la caduta del muro di Berlino, quegli stessi analisti che non avevano visto venire nulla s’affrettarono a concludere che la morte del comunismo supponeva una transizione rapida e gioiosa vero il capitalismo. È stato così, ma nel quadro di un processo irto di difficoltà impreviste. Di fatto, la transizione è avvenuta meglio in quei paesi che sono potuti entrare nell’Unione Europea (l’allargamento costituisce uno straordinario successo della politica estera europea, spesso criticata per la sua supposta invisibilità: ebbene, quello che fu un successo talmente grande che adesso è facile e ingiusto darlo come qualcosa di scontato).
Perche è l’integrazione in uno spazio politico ambizioso come l’UE che ha permesso a quei paesi di completare a dovere il processo di cambiamento. Scusate se è poco.
La transizione è invece rimasta insoddisfacente in tutti quei paesi che sono rimasti fuori dall’UE, e che fanno parte della politica di vicinanza. In quel caso, lo stimolo derivante da tale partnership non è stato sufficiente a permettere loro di completare quel processo, e molto rimane da fare.
Nei confronti del mondo islamico si apre oggi una prospettiva straordinariamente interessante: i cittadini hanno dimostrato la fallacia dell’idea che i mussulmani “hanno bisogno di un dittatore”: l’umanità evolve, e la democrazia è il prossimo appuntamento anche per loro. Se nel caso dei paesi comunisti si erano sottostimate le difficoltà, oggi le si sovrastima, giudicando impossibile un cammino verso la democrazia in quelle nazioni. Non è vero: sarà difficile, ma potremo proprio usare l’esperienza degli anni novanta per tracciare un cammino di aiuto.
L’Occidente ha tutto l’interesse ad aiutare quest’ondata espansiva della democrazia a consolidarsi.
Sarà lungo e difficile ma necessario. Le alternative sono la barbarie e il caos.
La comunità internazionale non è stata particolarmente efficiente in materia di “state – building” e “democracy – building”: in Afghanistan, Timor, nei Balcani non sono mancati errori anche clamorosi. Ma il caso dell’allargamento a est dell’UE offre un esempio positivo: quando esiste una prospettiva di medio periodo chiara di dove si sta andando, è possibile tracciare il percorso giusto. Nel caso dei paesi dell’est era l’adesione all’UE, ed ha funzionato.
Nel caso dei paesi del mediterraneo è la democrazia reale, senza più preclusioni per un’eventuale democrazia mussulmana, che del resto ha già dato buone prove in Turchia. Chiaro che non mancheranno tensioni e indietreggiamenti, ma difficilmente gli eroi di piazza Tahrir s’accontenteranno di meno. È nostro dovere vincere i nostri pregiudizi, approfondire le analisi e offrire assistenza là dove necessario. Possibile che i tempi per elezioni in Tunisia ed Egitto siano troppo corti: in sei mesi non si costruisce una rete di partiti e strutture che possano competere in elezioni né si possono riformare a dovere leggi fatte apposta per eleggere i dittatori.
Non sarebbe quindi grave che i tempi si dilatassero un po’. Ma senza perdere di vista la prospettiva finale, che non può essere altra che la democrazia.
La rivoluzione democratica che Bush voleva portare dall’Iraq al resto del mondo arabo è fallita miseramente , vittima della propria ipocrisia di fondo: quello che si voleva erano regimi docili dietro una patina democratica. Ma è fallito anche l’approccio integralista di Osama bin Laden.
L’Europa ha una carta da giocare: non critichiamola per le sue timidezze di questi giorni: è troppo presto per mettere a prova una nuova struttura di politica estera nata da pochi mesi e non ancora rodata. Comunque, per inciso, nessun altro ha fatto meglio, e qualcuno ha fatto ben peggio, esprimendo opinioni di bassissimo livello che fanno preferire un discreto silenzio.
L’UE può fare molto per appoggiare la democratizzazione, nei tempi e le modalità che saranno necessari, e per dare finalmente sostanza a quell’Unione per il Mediterraneo che sinora è stata ostaggio dei prepotenti. Che a poco a poco lasciano la scena, aprendo lo spazio a nuovi scenari. In cui, oltre al potere di facebook, si può inserire anche il “soft power” europeo. Può sembrare una conclusione all’ “aspettando Godot”, ma è forse la prova di cui avevamo bisogno.
La breccia tra Islam ed Occidente può finalmente richiudersi, così come avvenne a quella tra paesi capitalisti e comunisti.

Stefano Gatto si è laureato a 24 anni: l'ultimo anno in una specie di Erasmus a Barcellona, dopodichè rimane a lavorare in Spagna 5 anni nel privato.
A 30 anni si sposa e vince il concorso UE, trasferendosi a Bruxelles.
Al tempo stesso rinuncia a perseguire un PH.D. a Columbia (era stato ammesso quello stesso anno).
All'interno della Commissione Europea era intenzionato a dirigersi verso il settore politica estera: non fu possibile subito, il suo primo posto fu a Eurostat, dove però si occupa di cooperazione con America Latina ed Asia, viaggiando moltissimo in quelle zone.
A 33 anni passa definitivamente alla direzione generale politica estera, direzione America Latina.
A 35 il primo posto in Brasile (consigliere politico ed economico), a 39 il secondo in India (volutamente in Asia per non divenire solo uno specialista America Latina, consigliere commerciale, soprattutto OMC).
A 43 il rientro obbligato a Bruxelles (dopo due posti all'estero è la regola), dove, essendosi occupato sempre più di questioni economiche che politiche cerca un posto di natura prettamente politica: responsabile delle missioni d'osservazione elettorali dell'UE nel mondo, un tema che lo ha portato a confrontarsi con scenari delicati un pò ovunque nel pianeta (Afghanistan, Venezuela, Timor, Angola, Costa d'Avorio etc.).
Un periodo molto istruttivo.
Conosciuto grazie ad un amico comune, affezionato al Siena calcio, alla Juventus, membro e "piccolo azionista" del F.C. Barcelona.
Scrive di politica su lo spazio della politica, potete seguire là i suoi interventi.

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